Regni

son

In Canada, dove ancora oggi invece di vie dicono règne, la più povera e oscura vita umana, quella di un taglialegna o di uno zatteriere, è règne. Mon règne. Ton règne. Quindi, nel francese del Canada, la vita che Sonečka avrebbe trascorso ancora qui, al pari di tutte le altre, sarebbe stata un règne, la fin de son règne. E nessuno potrebbe accusarmi – di iperbole. Grande è il popolo che così chiama – la vita. (p. 179)

Ma a questo punto deve risuonare un nome: Martin Eden.
Le parole di Volodja: «È più di quanto se ne possa dire […] Un giorno, quando ci separeremo… Marina Ivanovna, leggete Martin Eden, e quando arriverete al punto in cui il cavaliere biondo è sul cavallo bianco pensatemi – mi capirete!»
Diciannove anni, anzi diciannove anni e mezzo più tardi, nel novembre 1937, a Parigi, cammino sotto la pioggia lungo una stradina sconosciuta in compagnia del russo Kolja – appena più vecchio del Volodja di allora.
«Marina Ivanovna! Guardate: dei vecchi libri sotto la pioggia – volete dare un’occhiata?»
Sollevo appena la tela cerata che li copre: Martin Eden mi guarda.
E ora – una spiegazione. Sarebbe assurdo pensare che, vivendo unicamente di sogni e memoria, io avessi dimenticato quanto mi aveva detto Volodja.
Ma – entrare in un negozio e chiedere di Martin Eden? Troppo semplice.
Così come Volodja un giorno era entrato nella mia vita – da solo, così come tutte le cose importanti della mia vita sono arrivate da sole – o non sono arrivate affatto, allo stesso modo anche Martin Eden doveva arrivare da sé.
E fu così che arrivò – quel giorno, sotto la pioggia, per una frase casuale detta dal mio accompagnatore.
Fu così che mi apparve. […]
Così, sotto la pioggia – tirato fuori da sotto un’incerata – all’ultimo momento prima della chiusura – dalle mani di una venditrice indifferente – fu semplicemente un salvataggio: di Martin Eden e della memoria di Volodja. Lì Martin Eden aveva bisogno di me, io tesi una mano in suo aiuto, lì davvero – gli diedi una mano.
Ed ecco, alla fine di questo libro immortale – oh, il cavaliere biondo non lo cercavo neanche, e neppure lo cercavo, sapendo che sarebbe apparso – al momento giusto e nel punto giusto! – alla fine di questo inno alla fatica e alla crescita solitarie, di questo inno alla solitudine, nella sua dodicesima ora in questo mondo…
– qualcosa di chiaro, ma non un cavaliere: un rematore, un nuotatore, un selvaggio viso pallido del Pacifico dritto su un pezzo di legno, nel quale riconobbi il cavaliere biondo (mai esistito se non nella mia memoria).
Diciannove anni dopo Eden mi confermava – Volodja.

Marina Cvetaeva, Sonečka, trad. di Luciana Montagnani, Adelphi 2019