La mia amica Elsa mi ha detto che non ci si può più suicidare dall’Arc de Triomphe per colpa di sua zia. Da quando si era lanciata di sotto negli anni Novanta, l’amministrazione parigina aveva perimetro la cinta del monumento con del filo spinato, lo stesso che si trova sopra i grattacieli di Manhattan ancora in piedi.
Stavamo passeggiando per i boschi quando mi aveva raccontato della sorella di suo padre; dopo quel suicidio diversi membri della sua famiglia avevano deciso di diventare psichiatri per scongiurare la propria paura di impazzire. Quell’aneddoto mi aveva sorpresa: io ed Elsa non parliamo mai della nostra famiglia con passione. Ci siamo conosciute tardi, quando raccontare la propria storia somiglia sempre di più alla riproposizione di una fiaba dell’orrore da cui sono spariti tutti i fantasmi.
Mesi dopo sono andata a controllare le statistiche dei suicidi sull’Arc de Triomphe, sperando di trovare la storia di sua zia in base ai pochi dati che avevo su di lei. Mi incuriosiva la vicenda di una donna che aveva cambiato il destino di un monumento, ma non sono riuscita a trovarla, e pare che sia ancora possibile suicidarsi da quel punto di Parigi. Eppure la mia storia che mi ha raccontato la mia amica è vera, anche se non ho le prove, e capisco cosa vuol dire ogni volta che torno a Brooklyn e passo accanto a una casa o a una palazzina a cui so che ha lavorato mio padre, qualcosa che ha costruito e resta lì anche se non riesco più a vederlo. La vertigine di una testimonianza che è stata lasciata nello spazio ma non mi riguarda, anche se porta il mio nome. (p. 54)
Rileggere te stessa significa inventare quello che hai passato, individuare ogni strato di cui sei composta: i cristalli di gioia o di solitudine sul fondo, le conseguenze di una memoria che è evaporata, tutto ciò che è stato scavato e poi inondato, solo per renderti conto che non è vero che il tempo guarisce: c’è una frattura che non verrà mai riempita. L’unica cosa che fa il tempo è portare con sé polvere ed erbacce, in modo che quella crepa venga ricoperta fino a trasformarsi in un paesaggio diverso, lontano, quasi fiabesco, in cui si parla un idioma che non riconosci più, credibile come l’elfico. Passeggi sulle rovine della tua famiglia e ti accorgi che alcune parole sono state cancellate ma altre sono state salvate, alcune sono sparite mentre altre faranno sempre parte del tuo riverbero, e poi finalmente arrivi al margine di tuo padre e di tua madre, dopo anni in cui hai creduto che morire o impazzire fosse l’unico modo per essere alla loro altezza. E lì capisci che tutto nel tuo sangue è un richiamo, e tu sei solo l’eco di una mitologia anteriore. (pp. 63-64)
Possiamo fallire una storia d’amore, il rapporto con una madre. Ma quando una città ci respinge, quando non riusciamo ad entrare nei suoi meccanismi più profondi e siamo sempre dall’altra parte del vetro, subentra una sensazione frustrata di merito, che può farsi malattia. Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe ad esserlo; il resto del tempo, è solo il sinonimo di una mutilazione, e un colpo di pistola che ci siamo sparati da soli. (p. 179)
In italiano, il verbo “sentire” coincide con la capacità di provare un sentimento e un senso preciso, l’udito. In inglese non è così, “to hear” e “to feel” sono due azioni ben distinte. Non so come funzioni nelle altre lingue. E non so come potrò tradurre le volte che mia madre resta distesa sul letto con gli occhi chiusi e bisbiglia “Non sento niente”, senza perdere tutto quello che vuole dirmi. (p. 212)