Una volta, sul far della sera, il postiglione, che era un tartaro del Nogaj, gl’indicò con la frusta delle vette lontane al di là delle nubi. Olenin fissò avidamente lo sguardo in quella direzione, ma il tempo era coperto e le nuvole coprivano fino a mezza altezza le montagne; egli scorse soltanto il loro profilo irregolare, di un biancore grigiastro, e per quanta buona volontà ci mettesse, non riuscì a trovare nulla di bello nelle montagne di cui aveva tanto letto e sentito parlare. Gli venne da pensare che i monti e le nuvole avevano un aspetto assolutamente identico, e che quella bellezza così particolare delle cime innevate, che tanto gli avevano decantato, non fosse altro che un’invenzione come la bellezza della musica di Bach e l’amore per una donna, in cui egli non credeva, così smise di aspettare la comparsa delle montagne. Ma il mattino seguente, destato di buon’ora dal fresco che penetrava nella vettura, Olenin gettò un’occhiata distratta verso destra. Era un mattino perfettamente sereno e limpidissimo, e improvvisamente egli scorse, a una distanza che lì per lì gli parve non più di una ventina di passi, delle masse di un biancore immacolato, dai delicati contorni, e la linea aerea, nettissima e stupenda delle loro cime che si stagliava contro il cielo lontano. E quando egli ebbe preso coscienza di tutta la distanza che lo separava da quelle montagne e dal cielo, e della loro immensità, quando avvertì dentro di sé tutta la loro incommensurabile bellezza, provò un senso di vero sgomento come davanti a un sogno o a un miraggio. Si dette uno scossone per ridestarsi da quello che credeva un sogno, ma i monti erano sempre lì, in tutta la loro imponenza.
“Ma cos’è? Cosa sono?” chiese al postiglione.
“Le montagne, no?” rispose l’altro in tono indifferente.
Lev Tolstoj, I cosacchi, Mondadori 1996, trad. di Gianlorenzo Pacini