Scrivere non si può, senza rettorica; senza, cioè, conoscere per l’appunto quelle frigide regole, quelle calcolate astuzie, e macchinazioni argute, e sapidi ritrovati, che fanno sì che la pagina scritta abbia quella misteriosa compattezza, quel che di gelido e insieme inattaccabile, quella sconcertante mescolanza di fatuo e di esatto che è la letteratura. La rettorica è pura tecnica: la consapevolezza di quel che si può fare con le parole, quel che accade se maneggio gli aggettivi in un modo o altrimenti, se allontano o avvicino verbo o soggetto, se frappongo incidentali, se costruisco per dipendenti o per coordinate. Quel che mi affascina nel discorso della rettorica è l’assoluta indifferenza a ciò di cui si parla, ai sentimenti, gli affetti, i conflitti, le visioni, le depressioni e le euforie che dàn vita e morte a un testo; amo della rettorica la sublime vocazione all’indifferenza, lo spregio dell’emotivo, l’implicito sarcasmo per le ambizioni del poeta, magari del vate, di colui che si vanta di interpretare il proprio tempo, o fare altre cose disdicevoli o improbabili.
Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Adelphi 1994