In questi anni ho sempre scritto a mia madre, finché era viva. Ci sono madri che imparano a leggere e scrivere solo quando un figlio va in carcere, per sapere dai giornali, dalle lettere, dagli atti, che ne è di lui. Mia madre no. Mia madre era quasi brillante: condoglianze e biglietti di auguri li ha sempre scritti lei, per tutta la famiglia. Ma quando mi scriveva in carcere si appiattiva. Sempre le stesse cose. Quelle frasi di circostanza sapevo quanto le erano costate. Quanta vergogna, quanta intimità. Se l’era dovute tirar fuori a forza, dalle viscere. È piú difficile un Buona Pasqua a un detenuto che trascrivere i propri sogni per chiunque altro. Arrossiva. Mia madre arrossiva per scrivere: Ti salutano tutti, o: La tua nipotina cresce.
Giovedì 5 marzo, alle 19, presento con Alcide Pierantozzi alla Libreria del Mondo Offeso di Milano Cattivi di Maurizio Torchio. Che è il più interessante esperimento in narrativa italiana che abbia letto negli ultimi tempi: insieme un romanzo convincente, costruito in modo impeccabile e con un senso della lingua altissimo, e una sorta di saggio sul carcere che apre squarci nuovi sulla condizione di chi è prigioniero – in questo caso, il prigioniero totale, assoluto: un ergastolano in isolamento – e di chi invece “ha le chiavi”. Nel tempo senza tempo del fine pena mai: «Scrivono 99/99/9999 dentro ai computer, perché i computer hanno bisogno di un termine certo. L’ergastolo è qualcosa che un computer non può capire».