Nei due decenni dedicati alla riflessione su ciò che mi accadde, credo di aver compreso che la remissione e l’oblio provocati da una pressione sociale sono immorali. Chi perdona per ignavia e convenienza si sottomette al senso sociale e biologico – abitualmente definito naturale – del tempo. Il senso naturale del tempo ha la sue radici effettivamente nel processo fisiologico del rimarginarsi delle ferite ed è entrato a far parte della rappresentazione sociale della realtà. Proprio per questo esso ha un carattere non solo extramorale, ma antimorale. È diritto e privilegio dell’essere umano non dichiararsi d’accordo con ogni evento naturale, e quindi nemmeno con il rimarginarsi biologico provocato dal tempo. Quel che è stato è stato: questa espressione è tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito. La resistenza morale ha in sé la protesta, la rivolta contro la realtà, che è ragionevole fintanto che è morale. L’uomo morale esige la sospensione del tempo.
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Mi esamino diffidente: non è da escludere che sia malato; dopo averci tenuto sotto osservazione, la scientificità oggettiva, con nobile distacco, ha infatti coniato il concetto di “sindrome da campo di concentramento”… I tratti caratteriali che determinano la nostra personalità sarebbero distorti. Il nostro quadro clinico sarebbe caratterizzato da stati di irrequietezza nervosa, dal ripiegamento ostile verso il proprio io. Saremmo, così si afferma, dei “distorti”. Di sfuggita penso alle mie braccia contorte dietro la schiena durante la tortura. E questo fatto d’altra parte mi impone di ridefinire il nostro essere distorti come forma di umanità moralmente e storicamente superiore alla sana dirittura. Devo quindi delimitare il risentimento da due lati, salvaguardandolo da due definizioni: nei confronti di Nietzsche che lo condanna a livello morale, e nei confronti della psicologia moderna che lo recepisce solo in quanto elemento di conflitto e turbativa.
Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri 2008, trad. di Enrico Ganni